Una domenica che pare un lunedì

Tipo che ti sembra quasi ci voglia una cosa così

https://www.youtube.com/watch?v=-RDL_47bVRU

e poi ti svegli e vai a lavoro e pensi che è proprio così.

 

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Mostri

In condivisione di letti e caste notti insonni, penso che non mi piace dormire da sola, e a dormire in due si sta meglio, sempre che si dorma.

In condivisione di letti e caste notti insonni sono venuti vari mostri in visita, mostri reali e mostri rari, mostri immaginari e mostri passati.

Foto di Simona Pampallona

Mi ricordo di quando l’ho conosciuto tanti anni fa, ormai. Il primo, nitido, ricordo che ho è di averci parlato dopo un’assemblea all’Orazio, che per me era come dire un’assemblea in Germania, visto il tempo impiegato per raggiungerlo. Eravamo giovani, io frequentavo della gente che poi ho perso di vista e non so nemmeno perché, volevamo un sacco di cose e provammo anche a fare altro, senza di lui, senza di loro. Dunque ricordo una spaccatura, ricordo però che l’ho incontrato tante altre volte, le ultime per strada, mentre io mi prendevo svariati gelati. Mi ricordo che lo prendevamo in giro, come prendiamo in giro tutto il mondo, e lo chiamavamo Paul Newman. Lo ricordo a Trastevere, sul tram e tante altre volte, in tante assemblee, percorsi e storie. La tristezza di avere ora solo i ricordi e nessuna possibilità di migliorarli.

Ti abbiamo salutato in un saluto bello, con le tue foto, con i tuoi colori, le tue poesie, i tuoi amici, le tue amiche, le compagne, i compagni. Io non t’ho salutato bene, come in vita non t’ho conosciuto bene. Mi dispiace, ma ora è da stupide dispiacersi, sarebbe stato meglio farlo prima.

Paul, che la terra ti sia lieve.

Poi è passato il mostro del filo spinato, il mostro di quello che avremmo potuto fare o potremmo ancora fare, di quello che faremo, per provare a far vincere i buoni sui cattivi qui come in altri mondi. La tranquillità degli occhi dei curdi e delle curde, la difficoltà di fare una rivoluzione contro tutto, il capitale, il fondamentalismo religioso, il sessismo fuori e dentro le proprie comunità. Le gambe delle ragazzine che hanno dieci anni meno di me e combattono per la libertà di tutte noi, le gambe ferite dal fuoco nemico e zoppe ma fiere orgogliose dignitose libere soprattutto libere come io non sono mai stata. Perché la libertà di vivere non viene da quanto scopi, da quanto stai a letto la mattina, da quanto ti droghi, ma da quanto sei capace di lottare per la libertà di tutte e tutti. Io non lo sono poi molto. In fondo è comodo, così.

E poi la libertà, parlare, parlare, parlarsi addosso di libertà altrui come se si fosse dallo psicologo. Mi piace ascoltare storie vecchie, storie nuove. Mi piacerebbe sentire a volte storie dal finale lieto, invece si parla anche per scacciare quei mostri e fantasmi che ci attanagliano. Perché avremmo voluto fare di più e meglio, o forse nulla. Perché a volte, vuoi per paura, vuoi per pigrizia, sulla libertà ci si sputa sopra e fa male pensarlo.

La libertà è il 25 aprile, ancora un morto da ricordare, morto di una morte stupida, perché l’ha preso giovane, l’ha preso all’incrocio con troppe cose. Ricordare dunque la libertà e la liberazione, ma anche un’altra persona che ci ha lasciati così…a guardare alle nostre vite senza la sua. Così come le nostre vite private di tutti quelli che hanno sequestrato dietro un muro di carcere.

E poi c’è la mia di vita. Precaria, da alcuni sogni che si infrangono sul muro dei conti in tasca, di come possiamo partire se non abbiamo una lira, di accettare i lavori ad agosto perché sono sempre meglio che niente, tante volte ce scappa la vacanza dopo, e una vita che torna al punto zero, dopo l’illusione di una storia che è finita per qualche sbrocco esagerato e un lui che non s’è sentito di starci appresso e alle mie prime fragilità si è dato come io mi darei di fronte alle guardie che caricano. E poi questo è il mostro dei mostri nonostante il tentativo subitaneo di metterci una toppa con l’amico che bussa a casa alle 3 di notte passate da un po’ perché vuole assaggiare la tua pelle, mentre la sua sa di droga e odori irriconoscibili e pensi che sarebbe una storia che starebbe meglio in Trainspotting piuttosto che nella tua vita regolare di colazione-lavoro-sport la cui massima trasgressione è il bicchiere di vino al pasto.

Infine, il dubbio che t’attanaglia, e che ti fa rimbombare lo stomaco e stare un po’ male.

Che forse, ho il cuore atrofizzato dopo tutte le vene che gli hanno tagliato.

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Il solito per favore

Incredibilmente, al ritorno da viaggi complicati con gruppi difficili, in cui si è potuto vedere con i propri occhi cosa voglia dire l’uscita dall’Eden, si è ascoltato con le proprie orecchie l’orrore e si sia vissuta tutta la propria posizione di privilegio nel calpestio del fango dell’ennesimo campo profughi su questa terra, lo stomaco si stringe sulla propria solita insofferenza.

Ennesima riprova che i privilegi esistono e che non abbiamo diritti ma solo rovesci.

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Il Peris-Teschio. Pennarello su carta di Davide Toffolo

I corpi si disfanno dal momento stesso in cui compaiono al mondo, nelle reni di una vecchia gatta malata, nei pezzi di mia madre che la stavano uccidendo e che non le appartengono più, nelle ossa scricchiolanti di mio padre, in mia nonna all’ospizio, sento tutto il peso della leggerezza di vivere in Occidente in una posizione in cui non mi manca nulla se non un contratto e qualche spiccio a fine mese.

Volevo piangere ascoltando delle donne rivelarmi orrori quotidiani, provo rabbia nel sentir parlare di viagra e anfetamine come armi di guerra, per compiere lo stupro di massa e sballarsi nello sgorgare del sangue del nemico. Mi sono svegliata storta, avendo sognato che ancora e ancora dei compagni vicini avevano compiuto violenza, e vorrei vivere nella più sincera ingenuità e ignoranza di ciò che accade intorno.

Poi alla fine torno a me stessa, ai problemi quotidiani. Ti faccio salire a casa o no?

E a cercare di capire come restituire ciò che ho imparato su questo mondo, sulla vita, sulla morte e sulla dignità.

Newroz significa nuovo giorno e oggi c’è il sole.

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L’orrore è quotidiano

In questi giorni in cui l’orrore unisce tutti sotto il braccio dei potenti, non voglio e non posso dimenticare che l’orrore è quotidiano. L’orrore dei migranti che a Melilla si ammazzano sulle barriere di filo spinato della Fortezza Europa, che affogano nei mari, l’orrore delle bambine kamikaze che si fanno esplodere o vengono fatte esplodere nei mercati dalla infamità di Boko Haram, che non nega il proprio odio per le donne. Lo stesso odio che porta la violenza domestica alla quotidianità dei nostri vicini di casa. L’orrore nel racconto di teste sbattute contro il muro, teste diverse in contesti diversi eppure la paura rimane la stessa.

L’orrore è quotidiano, si insinua nelle nostre vite di tutti i giorni, esplode a volte nella detonazione di un ordigno o negli spari di un kalashnikov, uccide di botte nelle carceri, o nelle esecuzioni della più antica democrazia del mondo.

L’orrore è a Guantanamo, ti bussa alla porta per chiederti un po’ di zucchero con la faccia angelica del vicino, oppure si palesa nelle bandiere nere dell’Isis, che sono anche la diretta conseguenza del nostro passato e presente coloniale.

Allora nonostante l’orrore sia esploso in una redazione di un giornale satirico, forse è vero, c’è un errore, non siamo Charlie. Ci riconosciamo in tanto altro, abbiamo il dovere di ricordare anche altro.

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C’è un errore, io non sono Charlie…

Non dubito che esistano dei «Charlie» simpatici e pieni di buone intenzioni. Sono inondato, come tutti, dalle loro lettere indignate. Io non lo sono.
Non sono Charlie, perché so che l’immensa maggioranza di questi Charlie non sono mai stati né Mohamed né Zouad, vale a dire nessuno di quelle centinaia di giovani assassinati nelle periferie dai «nostri» poliziotti (di tutte le confessioni, gli sbirri!) pagati con le «nostre» tasse. Se ricorro agli arnesi del sociologo, capisco perché per dei piccoli borghesi bianchi sia immediatamente più facile identificarsi con un famoso disegnatore, intellettuale e bianco, che con un figlio di immigrati operai del Maghreb. Comprendere non è giustificare né aderire.
Non sono Charlie, perché rifiuto di «manifestare» su ingiunzione del locatario dell’Eliseo insieme a politicanti, sbirri e militanti di estrema destra. Non parlo a vanvera: una conoscente mi ha spiegato che sul suo posto di lavoro, sono i militanti cattolici omofobi della cosiddetta «Manifestazione per tutti» ad impegnarsi nell’organizzazione di un minuto di silenzio per la redazione di Charlie Hebdo.
Non sono Charlie, perché rifiuto di piangere sui cadaveri di Charlie Hebdo con un François Hollande che ha appena annunciato che l’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes sarà costruito, cioè che ci saranno altri feriti gravi con proiettili di gomma, e probabilmente altri Rémi Fraisse.
Non sono Charlie, perché sono visceralmente — e culturalmente — ostile ad ogni sorta di «Sacra Unità». Anche i giornalisti più stupidi di Le Monde hanno capito che proprio di questo si tratta; si chiedono soltanto quanto tempo potrà durare questa «unità». «Radunarsi» dietro François Hollande contro la «barbarie islamista» non è meno stupido che fare la sacra unità contro la «barbarie tedesca» nel 1914. Anche alcuni anarchici si erano fatti coinvolgere all’epoca; basta così, abbiamo già dato!
Non sono Charlie, perché il «raduno» è la definizione neo-liberale della collaborazione di classe. Alcuni di voi forse immaginano che non esistano più classi e ancor meno lotta fra le stesse. Se siete padroni o capi di qualcosa (ufficio, laboratorio…), è normale che lo pretendiate (e ancora! ci sono delle eccezioni) o che possiate crederlo. Se siete operai e operaie costretti a mansioni tecniche, o disoccupati e disoccupate, vi consiglio di informarvi.
Non sono Charlie, perché pur condividendo la pena dei parenti delle persone assassinate, non mi riconosco in alcun modo in ciò che era diventato, ormai da alcune decine d’anni, il giornale Charlie Hebdo. Dopo aver cominciato come foglio anarchicheggiante, questo giornale si era rivoltato — soprattutto sotto la direzione di Philippe Val — contro il suo pubblico degli inizi. Restava anticlericale. Questo conta? Sì. È sufficiente? Certamente no. Apprendo che Houellebecq e Bernard Maris erano legati da grande amicizia, e che il primo ha «sospeso» la promozione del suo libro Sottomissione (cosa che non gli costerà nulla) in omaggio al secondo. Ciò dimostra che, anche nelle peggiori situazioni, c’è la possibilità di farsi una risata.
Non sono Charlie, perché sono un militante rivoluzionario che cerca di tenersi al corrente dell’andamento del mondo capitalista in cui vive. Di conseguenza non ignoro che il paese da cui provengo è in guerra, certo in «scenari operativi» lontani e mutevoli. Poiché dappertutto nel mondo e perfino nel mio quartiere, alcuni nemici della Francia possono considerarmi, nel peggiore dei modi, loro nemico. Cosa che a volte è vera, e a volte no. Almeno, sapendo che la Francia è in guerra, non provo lo stesso stupore di tanti Charlie nell’apprendere che un atto di guerra è stato commesso in piena Parigi contro umoristi irrispettosi verso le religioni.
Non sono Charlie, perché in mancanza di precisazione e per il fatto stesso dell’anonimato generato dalla formulazione «Io sono Charlie», questa dichiarazione s’intende necessariamente, e al di là delle posizioni magari differenti dell’uno o dell’altro, come un’unanimità «antiterrorista». In altre parole: come un plebiscito dell’apparato legislativo chiamato «antiterrorista», strumento di quella che definisco terrorizzazione democratica.
Non sono Charlie. Sono Claude. Rivoluzionario anarchico, anticapitalista, partigiano del progetto comunista libertario, nemico mortale di tutti i monoteismi — ma faccio sacrifici ad Afrodite! — e di qualsiasi Stato. Questo basta a fare di me un bersaglio per i fanatici religiosi e per gli sbirri (ho pagato per saperlo).
Sono disposto a discutere con coloro per cui l’eccidio di Charlie Hebdo è uno degli orrori di questo mondo, ai quali è inutile aggiungere ulteriore confusione sotto forma di emozione gregaria.

Claude Guillon

[9/1/15]
https://lignesdeforce.wordpress.com/2015/01/09/vous-faites-erreur-je-ne-suis-pas-charlie/
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Militanz

Danzo in oscuri luoghi, danzo da sola ché non so portare né essere portata, ma so bene come autogestire le mie ansie i miei problemi i miei dubbi.

Ovvero non gestirli, inondare di parole chiunque su un dato argomento, aspettare consigli e poi fare tutto il contrario. Ill 2015 si è aperto e avrei voluto iniziarlo scrivendo di carcere.  Invece di nuovo parlo di me e dei miei nuovi propositi.

Il 2014 ha visto tante novità. Il mio collettivo sciolto in altre lotte mi ha lasciata un po’ orfana e un po’ triste, a me che lottatrice mi ci sento poco anche sul tatami e che alla fine faccio quel che faccio solo perché mi piacerebbe lasciare questo mondo anche un briciolo migliore di quel che sembra ora, non mi sono riconosciuta in cose più grandi di me. Faccio solo quello che mi è sempre sembrato più vicino, che mi diverte, che dà una mano senza pretese di militanza all’autogestione spesso altrui: ascolto, promuovo, metto insieme serate, compongo torte, lavo piatti, cerco due spicci per la concretezza di tenere fuori qualcuno (non mi importa o mi importa fino a un certo punto chi) dal carcere, faccio informazione, inventario libri. Sono tornata al punto zero del mio percorso di militanza, ma stavolta l’ho scelto: voglio essere l’ultima. Perché i primi non mi sono quasi mai simpatici e pure quando loro sono simpatici a me non lo sono io a loro. Perché mi sono rotta di interfacciarmi all’ipocrisia di certe riunioni in cui già si sa chi, quando e come parlerà. Poi magari così facendo mi perdo analisi, discorsi, e un sacco di altre cose interssanti. Un prezzo c’è sempre.

Il proposito che mi pongo per il 2015 è di coniugare sempre di più il personale e il politico, perché non è al di fuori di lavoro e sfruttamento, relazioni plurime meglio o peggio gestite e della vita consumistica che facciamo che si darà un senso nuovo alla parola rivoluzione. Che come ci insegnano gli antichi è fare un giro intorno, o meglio non cambiare niente, per cambiare tutto…

E rivoluzione non può che far rima con relazione. Che poi è l’altra cosa che ho perso nel 2014, ma a volte si perde per trovare e in effetti mi sono ritrovata desiderata, a tratti amata, coccolata, come mai lo ero stata. Da incroci di persone così diverse che a spiegarlo mi impiccerei la lingua, mentre le loro si impicciano su di me. L’unico disagio è quello di pensare che così non potrà andare avanti per sempre e che non si può stare così comode a lungo. Perché a me piace star male eccetera eccetera ma ora me la godo incredibilmente spesso lontano proprio da quei luoghi militanti in cui mi sento scomoda e troppo diversa, ma lontana anche dai luoghi del mondo normale in cui altrettanto diversa e scomoda mi sento.

Sono abituata a essere diversa, a essere dileggiata, a stancarmi della pochezza delle relazioni umane, della fittizia costruzione della coppia eterna e inossidabile e della gerarchia da assemblea che si ripete pure a letto.

Non so che propormi per il 2015. Sto tentando di mediare i miei istinti monogamici, con scarso successo, di capire chi mi è vicino e cercare di stargli vicino, di non essere gelosa, di non appiccicarmi. Pare facile. Per ora mi accontenterò di una tisana  e di pensare alla persona più lontana e più vicina a me che sto frequentando in questo periodo. E che gli incastri non sempre possono essere basati sull’attivismo.

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Facciamoci male

Sgorgano dal mio corpo un sacco di sentimenti buffi. E dolorosi. E belli.

Vivo il lutto dell’assenza di lui in maniera tutto sommato semplice e positivo fino a che

nonlovedochemangiaatavolaconaltrenonmiparlanodiluinoncidevostaresedutaaccantoinpizzeria

perchéèlunicopostononmichiedonochefacciaoacapodanno

maledetta gelosia, te se pozzino portà via. Maledetta insicurezza, che lui me l’hai portato via prima del dovuto. Maledetta la sua spocchia che a tratti j’avrebbi dato una crocchia.

Dal lutto poi mi chiedo che significa coppia, che significa la sua assenza, come ci si comporta. Con chi si può fare sesso, quando e come. Genti con evidenti problemi di gestione reazionale si avvicinano alle mie labbra rosse fuoco come se volessero che esse avvolgessero i loro membri eretti. Ma che non lo sapete che il rossetto sul pelo pubico stona?

Poi c’è pure qualcuno che mi piace e magari si condividono intimità complicate, differenti visioni del rapporto sessuale, dita che entrano in quei buchi da cui sgorgano sentimenti buffidolorosibelli.

Se ci penso mi sento afferrare il collo e apro piano la bocca in un gemito di piacere.

Se ci penso mi chiedo che sentirei se il mio lobo venisse morso e come reagirebbe la mia spina dorsale.

Se ci penso a tratti mi manca, a tratti credo che mi scoppiasse dentro una voglia di altri corpi e che io quella voglia non la sapevo e non la saprei gestire. Che ci sono pochi così bravi, che a volte non si può volere tutto. O tutti e tutte.

Poi ti ritrovi in una tavola imbandita assurda, con uno di quelli che t’hanno frugato dentro più a fondo, quasi da toccarti l’anima, e la sua compagna, a chiederti se lei saprà, avrà intuito, o è solo un po’ fredda di suo. Da fuori la scena fa ridere e il tuo io dissociato ti stampa in faccia un sorriso da scema, alla la situazione è piacevole ma comunque che cazzo se ride quella là. Che poi lui è proprio tutto il contrario di quell’altro e forse per questo ti piace. Ma pure per questo sai che mai potrebbe essere interessante sul serio. Molto meglio i rigidoni come te.

E ancora a farti domande sulla coppia, sulla tua zitellaggine ritrovata, che ci si sta bene, ma a quest’età spesso significa andare a impattare su coppie altrui.

Mentre i buchi rimagono vuoti e bramano compagnia, la riflessione si fa mesta.

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#cosedilavoro

Se di scioperi dobbiamo parlare, parliamone.

Parliamo della mia settimana lavorativa che dura sette giorni e di non riuscire a uscire la sera per questo. Parliamo di capitale cognitivo, del lavoro di cercare lavoro quando non lavoro o nelle pause. Parliamo di non avere contratto e di non sapere se verrò poi mai pagata per il lavoro svolto. Parliamo dei “garantiti” che ho intorno, che non ricevono stipendi e contributi da mesi e mesi. Parliamo delle metalmeccaniche con la testa sfondata, a dimostrare a Landini chi sono i violenti da isolare. Parliamo dei processi a chi sciopera, che non si vedevano da tanto.

Parliamone.

Parliamo di fabbriche che chiudono, di intere città che cambiano la propria struttura.

Parliamo di trasporti ed esuberi Alitalia-Meridiana-NTV.

Parliamone. Continue reading

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Linea B

Monti Tiburtini – Colosseo, sulla carrozza che procede da Rebibbia  a Laurentina. Una signora truccata che diresti quasi si fosse voluta fare bella con troppa cura, quella che sfocia nella grossolanità. Al telefono:

“E insomma m’ha detto che s’è fatto già quattro volte l’ospedale, che appena fai uno sgarro, rispondi male, giù pizze. E insomma sì j’hanno fatto male sul serio già quattro volte…ma guarda ancora non si sa, che la sentenza definitiva ce l’ha tra poco e poi decidono se se lo tengono. Io oggi gli ho portato i cioccolatini, mica lo sapevo se portaje un dolce o qualcosa di salato, alla fine ho portato il cioccolato che almeno lo tira su…no no, anzi ha messo su pure un po’ di pancetta. Invece conta che c’avevo ‘na lettera della creatura e invece quella niente, se po’ mannà solo per posta. Gli ho detto che l’aprivo lì davanti e invece niente. Solo per posta…”

Neve, di Rita Petruccioli

La voce sfuma, lei scende, parentesi amara di una giornata che per qualcuno è più di merda di qualcun altro. Io ho lo stomaco aggrovigliato.

 

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Amo la mia città, ma

Amo la mia città “quella del Pasquino che se la ride di voi”, quella dei romani che per essere romani hanno da salì i tre gradini di Regina Coeli, quella degli spazi occupati, ma solo nei momenti in cui sono anche spazi liberi e liberati. Amo le Madonne che ci guardano dagli incroci e proteggono i viaggiatori, ognuna con il suo sguardo benevolo e le sue PGR. La Roma della Roma quando la Roma vince…La Roma dell’Isola Tiberina all’alba.

Ma,

odio la mia città quando mi accorgo, come se ce ne fosse bisogno, che è un covo di fascisti, legati alle mafie locali, legati allo spaccio, al sessismo di strada che non viene dalla strada ma è tale e quale a quello di Berlusconi, Renzi, del carabiniere della porta accanto che dice a chi vuol denunciare una violenza “che vuoi che sia? sarà stato stanco”.

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Mi consenta

Siamo tutte sopravvissute, siamo tutte perpetratrici?

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Murale di MP5

Non saprei, ma di sicuro io sono entrambe le cose.

Partiamo dai panni sporchi: sì, ho insistito oltre il limite che di fronte mi avevano posto, per due volte almeno, poi chissà se ce ne sono state altre che non m’hanno esplicitato [mentre rileggo mi viene in mente un altro episodio in cui avrei proprio potuto accannare prima, anche se in quel caso non m’è stato poi rimproverato particolarmente, chissà lui come se l’era vissuta]. Ed è facile nascondersi dietro costruzioni sociali che non ci insegnano, a noi biodonne intendo, che un “no” un uomo non lo potrà dire mai, o che se non c’è penetrazione e si è vicini e nudi/e nulla di male può essere fatto. La verità è che un “no” detto o espresso è sempre “no”. Non c’è amore, nudità, complicità che tenga.

Io non l’ho rispettato, è capitato, è passato del tempo e le frequentazioni sono cambiate, ci sono stati dei sì, degli allontanementi e nulla è dipeso, o tutto è dipeso, da quell’errore che ho fatto. Ma l’ho fatto e non vorrei rifarlo.

Non vorrei perché ho detto “no” e non sono stata rispettata, e anche se quella volta non sono dovuta scappare, non ho dovuto urlare, per evitare di fare quello che non volevo, avevo di fronte una persona di cui mi fidavo e con cui volevo fare altro o non fare nulla, che mi piaceva molto e questo non mi ha fatta alzare per andare via, mi ha fatta rimanere a raccogliere umiliazione e violenza. No, non sono stata violentata, sì, ho subito violenza. E poi l’ho subita tutte le volte che ho detto, “no, per favore, non mi toccare la testa, mi dà fastidio” e lì a non capire, non voler capire.

Poi mi è ricapitato e alla fine come per me in quelle altre due occasioni a lui è toccato il compito di parlarmi e di chiedermi scusa, e ancora una volta di lui mi fidavo e pensavo di potermi sbottonare tutti i bicchieri di vino e amaro che avevo di fronte. E ora preferisco comunque essere per lo più lucida, guardare il mondo con il massimo di raziocinio possibile, non dover delegare a nessuno il mio rientro a casa sana e salva, perché non si sa mai.

Però se col primo non ho nessun rapporto ormai, e mai più vorrei averlo, col secondo ancora scherzo e mi diverto. Perché anche se è sempre meglio che non ci sia affatto un momento in cui si supera il consenso, quando si cade dall’altra parte – e non si è cadut* troppo in là da non poter recuperare nulla (penso allo stupro in tutte le sue forme, ovviamente) – forse in qualche maniera ci si può riavvicinare. Con tatto, accortezza, tanto ascolto. Soprattutto quando tutto accade tra persone che si conoscono bene, perché tutte le volte quello che mi è successo è stato nell’ambito di relazioni molto carine che avevo (e che in parte ho ancora). La cosa buffa e grottesca è che forse, almeno per me, proprio con le persone che amo e desidero di più cado nella tentazione di non rispettare i “no”, di non ascoltare, di non avere la dovuta accortezza. Ma non è nelle relazioni più belle che si deve dare tutto per scontato, anzi, proprio lì il consenso e il conoscersi possono cementare cose belle. In un caso poi, l’elaborazione del tutto è stata parte anche di un percorso collettivo esterno. Ci siamo ritrovati in un workshop a parlare di consenso con altre compagne e compagni e questo è stato utile, anche se non del tutto risolutivo.

Come capire cosa si può e cosa no? Come comunicare cosa si vuole ricevere e fare?

Quanto è brutto sentirsi a disagio a fronte del proprio non voler far nulla, senza sapere da dove partire per spiegare che non sei tu che non mi piaci, è proprio che in questo periodo ho voglia di essere coccolata. Quanto pare brutto dire non mi entrare dentro se non ti va di leccare, meglio niente che soffrire. Eppure dirlo evita il disagio di non sapersi più guardare, il buttarsi in situazioni di merda perché è l’ormone che te lo chiede.

Spesso mi è capitato di scopare per noia, per convenzione sociale – chi non scopa è sfigat*, chi scopa solo con una persona è antiquat* -, per non sentirmi rifiutata. Forse un buon punto di partenza è proprio quello di trovarsi in consenso prima di tutto con se stesse. Se l’atto sessuale non è performance sociale o verifica dell’autostima, credo che sia più facile capire dove ci si diverte in due e dove non si diverte nessun*. Per tutto il resto basterà il parlare prima? Forse no, dicono che rubare pratiche dal bdsm possa essere utile, che lì il consenso è questione di vita e di morte, ma un po’ lo è sempre.

Questa interpretazione mi convince abbastanza, ma chissà poi se la saprei applicare!

To be continued…

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