Di propositi e considerazioni

Mancano poche ore allo scoccare del fatidico 2016 e sono qui intenta a prepararmi, lavarmi e coprirmi di rosso e nero per salutare questo faticoso anno.

Sono sola, prima di uscire, e mi acchitto e mi imbelletto come se dovessi davvero andare a rimorchiare, come se ancora ci credessi. Invece ultimamente non capita quasi mai, e l’essere fine dell’anno non significa avere più chance.

D’altra parte il proposito del nuovo anno è proprio quello di non sentirmi incompleta, ferita, frustrata, perché non ho *nessuno* accanto. Laddove poi, per nessuno, si intende in realtà la metà di una coppia. Perché ci hanno insegnato che non nell’amaro benedettino, ma nella coppia, c’è la felicità. Perché se sei femmina e non hai un maschio accanto sei valida per metà. Come se ancora la nostra struttura sociale prevedesse l’accoppiamento come unico obiettivo della donna. Possibilmente con figli al seguito.

Invece no, imparare a sentirsi uniche, piene, valide, da sole è importante quanto sapersi autodeterminare economicamente, saper parlare in pubblico, essere nelle cose, mandare avanti la baracca. Perché alla fine è sulle spalle delle donne che si reggono, spesso e volentieri, case, movimenti, lotte, uffici. E altrettanto spesso quelle donne si distruggono inseguendo uomini che valgono la metà di loro, o che fuggono come se costituissimo un pericolo alla loro integrità (magari imparassimo, su questo punto!). O peggio, finiamo in relazioni violente, in cui il centro di gravità della nostra vita diventa un lui (o anche una lei) e piano piano si sfascia tutto quello che c’è intorno.

E quindi per il nuovo anno il proposito è quello di fare meglio ciò che so fare, di volermi più bene e di coccolarmi anche un po’. Perché se la felicità si misura in orgasmi posso dedicarmi a tutte e dieci le mie dita, invece di perdere tempo e arrovellarmi sul mio essere sola. Che poi sola non sono affatto. E ho un sacco di persone cui voglio bene e che ci stanno sempre.

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Lettera a Touil

Caro Touil,

ti scrivo ma chissà se mai leggerai questa lettera. Ora sei rinchiuso in un CIE, struttura che non permette nemmeno la corrispondenza, per quel che ne so, nonostante chi vi sia detenuto di fatto non ha che la colpa di non avere documenti.

Quindi ti scrivo qui, come se potessi saperlo.

Quando ti hanno preso eri in Italia da poco, stavi studiando italiano, avevi raggiunto la tua famiglia. Tutte cose piuttosto normali, quotidiane. Potevi essere uno di noi che decidiamo, a volte, di lasciare l’Italia per andare, che so, in Inghilterra, a Londra. Ciancichiamo parole di inglese stentato, a fronte di una popolazione un po’ chiusa che chiude anche le vocali e non si capisce molto di quel che dicono. Cerchiamo lavori di second’ordine perché fare il cameriere lì è meglio che qui e almeno impariamo una lingua straniera.

Ti hanno preso un giorno, perché accusato di un delitto infame, la strage del Bardo. Ti hanno accollato la morte di 23 persone, l’estremismo religioso e chissà che altro. Pare invece che semplicemente il tuo passaporto fosse finito in mani sbagliate, durante il viaggio faticoso e terribile che hai fatto su un barcone. Il barcone che doveva rappresentare la libertà, una vita nuova, tua madre, i tuoi fratelli. Il barcone ha rappresentato la detenzione, il carcere, per cinque lunghi mesi, durante i quali si è detto che eri terrorista e poi che forse no, ma sempre senza preoccuparsi di come stavi tu.

Come ti sei sentito in carcere? Cosa ti hanno fatto perché non riconoscessi più le persone, persino tua madre quando sei uscito? Dicono che non riuscivi più a parlare la tua lingua, cosa pensavi e cosa ti è successo?

A nessuno è interessato sapere come stavi. Non è stata concessa l’estradizione, e sei stato liberato, e sei stato nuovamente carcercato. E ora chissà, probabilmente ti faranno fare il viaggio al contrario e chissenefrega se tua madre è qua e chissà che sente con cuore di madre e come sta e come piange a pensarti di nuovo dietro un muro e filo spinato e non poterti nemmeno incontrare.

Touil, quello che ti volevo scrivere e mandare è un abbraccio solidale. Perché a 22 anni passare così tanto tempo detenuti senza aver fatto nulla per esserlo se non aver avuto sfortuna mi fa salire una rabbia, tanto più forte perché tutte le detenzioni sono ingiuste, ma la tua smuove la pancia e la testa.

Sperando che lo schifo che ti hanno fatto non sia uno schifo che diventi per te distruzione e morte – quel terrorismo di cui t’hanno accusato, mentre terrorizzavano te, ma che la rabbia e il dolore che proverai sicuramente si traducano in qualcosa di costruttivo. Forse è solo utopia e vorrai solo dimenticare.

Io però un abbraccio te lo mando lo stesso. Ricordando anche chi, come Cucchi, dalla detenzione è uscito con i piedi verso la porta, per la stessa violenza che a te ha fatto dimenticare il volto di tua madre.

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Un pezzo de core #atlantideovunque

Atlantide è un’isola leggendaria, un’utopia, il luogo in cui in tante ci siamo sentite a casa. Abbiamo ballato la trash, ci siamo ubriacate, abbiamo fatto riunione, abbiamo intessuto relazioni abbiamo amato, abbiamo baciato, ci siamo espresse nella nostra favolosità, noncuranti del nostro genere sociale o di quello che avevamo scelto…

“essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte […] tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l’isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve.” scriveva Platone e la brutta notte è arrivata, e la polizia si è portata via chi difendeva percorsi, libertà di tutte e tutti, voglia di cambiare. Chi fino ad ora è stato un punto di riferimento importante per tutte noi.

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Il comunicato, da leggere, ci ricorda che i commissariamenti non avvengono solo nella Roma Capitale in cui Gabrielli da badante è diventato a tutti gli effetti reggente almeno per il prossimo mese.

La colonna sonora tra “l’ultima volta non arriva mai” e Laida Bologna

Buona r-esistenza e tanta solidarietà a tutte e tutti! Atlantide è ovunque ma soprattutto ner core nostro.

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Dolori

Era lì, eravamo in assemblea, era di fronte a me ed era bellissima.

Era lì perché è successo quel che è successo. Era bellissima. E’ bellissima.

Era lì perché bellissima come è, qualcuno ha pensato di provare a rubarle la bellezza e di appiccicarla al muro perché troppo gli ricordava la sua bruttezza dentro e fuori. Era lì perché quel qualcuno ancora e ancora rende brutta la nostra città i nostri spazi le nostre vite e perché se anche lui smettesse ce ne sarebbero altri e magari anche altre, a sporcare quel che di bello abbiamo, quel che di bello siamo. E rimane appiccicaticcio come una scopata non desiderata, uno scambio di fluidi che non si voleva, quando non si riesce a capire cosa fare e come agire, a fronte di chi agisce violenza e violentemente entra nelle nostre vite e violentemente ci fa stare male.

E magari sono i nostri compagni

i nostri amici

i nostri amanti.

Magari agiscono violenza su di noi, magari su altre. Ma se toccano una toccano tutte e se ci giriamo dall’altra parte non è perché ancora gli vogliamo bene, a questi pezzi di merda che abbiamo chiamato amici, non è perché non siamo capaci di capire. Non è perché non sappiamo cosa sia giusto e cosa no.

Rimaniamo là con la mano sporca di sperma pronta a contagiare chi ci troviamo intorno perché sappiamo che fa un male di Cristo mettere in discussione tutte quelle cose là.

Artemisia Gentileschi, Maddalena

Perché ci siamo passate tutte.

Per la carezza lasciva del viscido di turno, per l’alito fastidioso di una bocca troppo vicina al nostro volto, nella scusa delle sostanze, nello stavi fatta mi sembravi ben disposta, stavo fatto, non avrei mai agito in tal senso se fossi stato lucido. Per tutte le volte che le assemblee non sono state luoghi in cui ci sentivamo di parlare e siamo state zitte e la parola la prendeva uno per noi. Per tutte le volte che un altro antiqualcosa ha messo sotto il tappeto quello che ci succedeva nel privato che privato non è mai.

Poi era lì di fronte a me, eri lì di fronte a me e non riuscivo a guardarti in faccia e negli occhi mai. Ed era l’imbarazzo di saperti lì perché ti erano successe delle cose e dei mostri erano usciti dal tuo armadio, non dal mio. Erano mostri giustificati da tante scuse, erano mostri che usavano scuse che sarebbero aggravanti, se invece di spaccarci la testa e sfrantumarci i cuori insieme costituissimo tribunali giudici polizia.

Era lì di fronte a me ed era bellissima e splendeva della luce di tutte coloro che ne stanno uscendo. Non sono luci prive di ombre ma sono potenti, siamo potenti, sei potente.

Perché più che nell’esprimere poteri godiamo del mettere in circolo la nostra potenza. 

[anche se, a volte, vorrei proprio un pensiero superficiale che renda la pelle splendida]

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Le piccole cose

Sono le piccole cose che rendono la vita degna di essere vissuta.

Guardassimo alle grandi, dovremmo lasciare stare tutto come fosse perduto per sempre. La guerra in Siria e in numerosi altri posti. La lotta per la libertà, combattere la repressione, la violenza di genere che non finisce mai, le divisioni e la voglia di cambiare che si scontra con le pale dei mulini a vento contro cui ci lanciamo disperate.

Disegno di Sara Fratini

Invece no, sono il frusciare dei giornali, il caffè sotto il pergolato, le telefonate provocatorie di prima mattina, le canzoni dedicate a se stesse e alle altre, gli allenamenti sudati, le ginocchia che si sbucciano, il fango, il lottare nel fango e la pioggia con il sereno. I Castelli che si vedono sullo sfondo, e allora forse val la pena andare avanti con queste giornate complicate, di sonni mancati, fauci da allappo e occhi che si chiudono di fronte a schermi sempre uguali. Continue reading

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Sorella, dove sei?

Ieri avrei voluto essere a Firenze, con le mie sorelle a urlare la rabbia per quella sentenza.

Avrei voluto ribadire che non è possibile leggere certe parole nel 2015 e mentre ascoltavo le voci di chi c’era avevo i brividi e ce li ho ancora ed erano brividi di odio mosso da amore.

Ma i brividi venivano anche dal fatto che stavolta, più di altre, sento che l’inquisizione ha inquisito me. Perché io e te abbiamo quasi la stessa età e perché anche io a 22 anni ero un po’ confusa e un po’ sicura del fatto di voler essere libera, di non voler sottostare alla gabbia dell’orientamento sessuale etero per forza, giravo e giro coi preservativi in borsa.

Anche io sono andata a letto con persone poco raccomandabili, e ho nutrito fiducia nei loro confronti, a torto. Anche se quelle persone hanno avuto nei miei confronti quel minimo di decenza che con te non hanno avuto, violentandoti in macchina e in tribunale.

Ho letto tutta la sentenza e i brividi sono risaliti non solo nel trovare la tua età simile alla mia e le tue abitudini forse un po’ vicine, ma anche nella pornografia (quella brutta, quella lontana da ogni nostra possibile condivisione) della descrizione del colore delle tue mutande, che mi ha ricordato quei maniaci che quando per strada vado in bici in gonna scrutano il colore che ho tra le gambe per renderlo molestia. Stavolta la molestia era dei giudici in tribunale, non di un maniaco qualsiasi per strada.

E poi oltre che i brividi, la rabbia, anche per quella menzione a un workshop a cui avevi partecipato, come se fosse stato in qualche modo rilevante circostanza da sottolineare in una sentenza.

Perché quella sentenza non riporta la presunta innocenza di chi hai accusato, ma fa un giudizio morale su di te, che sei tutte noi.

19 ore di interrogatorio, ti hanno fatto. Come ne sei uscita non lo so, so che siamo qui, per dirti che ti siamo vicine, che simili o meno che siano le nostre vite, ti stiamo accanto.

La libertà è la nostra fortezza, la sorellanza la nostra forza.

SANTA PUTTANA O DISINIBITA

PAZZA UBRIACA O PERVERTITA

DECIDO IO DELLA MIA FICA

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Panni sporchi

Il peso della violenza che ci circonda mi cade addosso come un macigno, mentre la Turchia bombarda il Kurdistan e lascia scorrazzare l’Isis per il Medioriente e io non mi sento tranquilla.

Il peso della violenza che mi circonda è scoprire che non siamo immuni dalla stessa e la rabbia di chi era tuo amico e ora come tutti giustifica quanto fatto ponendosi nella posizione di vittima. Senza mai smettere di violentare. E allora mi viene il vomito e mi viene il vomito quando leggo la bellissima lettera di chi subisce uno stupro e di nuovo deve comunicare tutta la rabbia, perché i tribunali dello stato l’hanno stuprata ancora una volta, l’hanno stuprata per sette anni, l’hanno inquisita sulle sue abitudini sessuali e non e l’hanno trasformata da vittima a colpevole.

Siamo colpevoli di essere libere, di andare in giro dove vogliamo, come vogliamo, di voler fare l’amore e fare sesso o di non farlo, di cambiare persona che ci sta accanto, di cercare di cambiare questo mondo che fa schifo e di farlo tutti i giorni a testa alta.

La mia pancia urla tutto il peso del femminismo che si porta dentro  nelle viscere più viscerali e nell’impotenza di non poterne colpire cento per educarne uno.

La mia pancia urla quando i panni sporchi rimangono in casa e non si possono mostrare all’esterno, urlare al mondo, quando ci si difende gli spazi più dei percorsi di crescita collettiva, come se gli spazi fossero veramente la cosa che conta.

Cambiare le relazioni, per cambiare il mondo, e farlo creando reti solidali. Provarci sarà mai possibile? Iniziamo a mettere insieme dei passi, perché è passo dopo passo che si costruiscono percorsi.

Intanto, per tutte, l’appuntamento a Firenze di martedì 28 alle 21.

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Il pane e le rose

Hearts starve as well as bodies, give us bread, but give us roses.

As we come marching, marching, un-numbered women dead
Go crying through our singing their ancient call for bread,
Small art and love and beauty their trudging spirits knew
Yes, it is bread we. fight for, but we fight for roses, too.

Lei: Il notturno si prende da là, a meno che tu non voglia andare a piedi ma è una vasca.

Lui: No, no ma che a piedi. Va benissimo da là.

Lei: Comunque se vuoi puoi pure dormire qua.

Lui: E dove dormo?

Lei: Un materassino e un sacco a pelo non si negano a nessuno. [ma cavolo, se vuoi pure nel letto mio va bene]

Lui: Ti ringrazio, ma a meno che tu non abbia dei tranquillanti non mi posso proprio fermare.

Lei: No, direi di no. Ma almeno fatti accompagnare.

Lei posa l’ariete che teneva sotto mano per sfondare quel muro che lui le mette davanti. Posa con nochalance una mano sul suo fianco quando si salutano, cercando di superare la frontiera con le buone e piano piano. Pensa che proprio uno che soffre d’ansia non ci voleva in questo momento. Ché di ansie ne ha già abbastanza da smazzarsi nelle notte insonni tra se stessa e se stessa. Ché non basta sgrillettarsi per dormire e ché forse dovrebbe provare con la valeriana.

Il giorno dopo le arriva un innocuo messaggio di lui e lei sorride come la scema che non vorrebbe essere come i suoi sedici anni e le cotte per i tipi disagiati e la voglia di sentirsi toccare. Perché lui le sembra abbastanza morbido e vorrebbe tracciarne i disegni sul corpo che si dispiegano raccontando storie, non tutte belle.

In questo momento di caos lavorativo e terrore per il futuro forse è l’unica via di uscita che il mio cervello mi ha dato. Ora che il mio corpo non è più un nemico, ora che cerco di ascoltarmi nelle mie esigenze e solo a tratti le rispetto, ma riesco a camminare fiera e sostenere sguardi quando indosso provocatoriamente gonne corte e quando voglio semplicemente ribadire che sono là.

Ci sono i bisogni semplici. Il pane, il lavoro, la casa. Ma senza le rose non vogliono dire molto. Anche se aiutano.

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La classe non è acqua

La classe non è acqua.

Quelli che vengono picchiati quando fanno i picchetti per migliorare le condizioni sul lavoro di tutte e tutti.

Quelli che muoiono montando i palchi di chi fa soldi a palate.

Quelli che muoiono e poi li buttano al fiume per far finta che non siano nemmeno mai arrivati in Italia.

Quelle che si sbattono per lavorare 55 ore a settimana per 900 euro al mese.

Quelle che pensano che forse potrebbero iniziare a farsela pagare per arrivare alla fine del mese.

Quelli che oggi vado al lavoro, domani forse, dopodomani no sicuramente perché tanto non mi pagano.

Quelle che si licenziano.

Quelli che cercano cercano e non trovano e vivono di espedienti.

Quelle che cercano cercano e non trovano e vanno a fare le giocoliere per strada.

Quelli che lavorano, quelle che il cielo sempre più blu.

Quelli che portano i pacchi.

Quelli che muoiono in motorino perché portavano i pacchi.

Quelle che non possono rimanere incinte perché se no perdono il posto di lavoro.

Quelle che rimangono incinte e perdono il posto di lavoro.

Quelli che non si possono permettere le vacanze.

Per tutti loro, per tutte noi, le parole di Jovanotti, Squinzi, Renzi, sono offese, schiaffi, bastonate in faccia. Per tutte noi iniziare l’esposizione universale il primo maggio è stata l’ennesima schifezza. Per tutte noi, un solo giorno, dovrebbero andare a lavorare, sotto il sole, andare a scioperare, per capire che non è uno scherzo, essere manganellati, per capire che fa male.

Il lavoro fa male, ma i padroni anche di più.

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Ciao, c.

Piccola palla di pelo ormai raccolto nei dread che la trascuratezza della tua vecchiaia ti avevano formato,

sei arrivata da noi miagolando forte, miagolando hai fatto tutti e sei i piani di scale che ti separavano da casa nostra, mentre papà ti chiamava con il nome che sarebbe stato tuo per tutti questi 16 anni insieme.

Hai acchiappato piccioni e gechi (ma proprio con quelli che mangiano le zanzare te la dovevi prendere?) e lucertole,

hai menato forte il gatto dei vicini, arrampicandoti fino al piano di sopra con un certo intrepido coraggio (chissà che t’aveva detto tra un miagolio e l’altro dall’alto della finestra da cui sei passata),

all’inizio ti appollaiavi sulla gabbia del criceto Silvestro, che probabilmente ti guardava con un po’ di apprensione.

Piano piano sei invecchiata, sei rimasta sempre bella e fin quasi all’ultimo non ti sei negata salti e sole in terrazza. Certo non ti sono mancate le coccole, né le grandi battaglie con i nostri piedi sotto le coperte.

Chissà quale era stata la tua vita precedente, nei due anni in cui non ti avevamo ancora conosciuta. Chissà quante vite hai vissuto e se ne vivrai altre, dicono che i gatti ne abbiano sette.

Ora non potrò più coccolarti, né farai le fusa per me.

Ma ti abbiamo voluto bene,

che il vento ti disperda dolcemente e che i tuoi miagolii fischino in esso.

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