Esternalizzazione

Questo post l’ho salvato per pubblicarlo il Primo Maggio, festa per chi lavora male e chi non lavora affatto, e poi l’ho scordato. Nel frattempo sono successe varie cose, tra cui la scoperta che in Polonia la generazione che mi è coetanea viene chiamata just enough perché non lavora più di quello per cui viene pagata (e pare sia bizzarro), ma soprattutto il primo sciopero serio da quando Solidarnosc iniziò a contrastare il regime (per una storia da sinistra della vicenda, potete leggere qui). Coordinato dal sindacato di ispirazione anarchica Inicjatywa Pracownicza, che significa più o meno “iniziativa sul lavoro”, ma guardacaso conosciuta come “iniziativa operaia”, sta interessando una delle zone economiche speciali polacche, che si trova vicino Poznan (la città più “movimentista” della Polonia).

Speriamo che just enough diventi, enough is enough!

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Avete presente quando parlavamo dei paesi del terzo mondo in cui si pagano meno i lavoratori e le lavoratrici per far fare più soldi alle multinazionali? Ogni paese aveva la sua specialità. Ricordo che si diceva di call center in India, dai quali madrelingua inglesi riferivano varie ed eventuali a tutto il Regno Unito.

Sto lavorando in uno di quei call center, nella capitale d’Europa che più si trasforma, nel peggio forse, e che può ospitare persone di tutti i paesi, capaci di chiamare in patria tutti i gommisti del regno. A me non importa molto di questo lavoro, e se c’è una cosa che non gli manca è la flessibilità negli orari, quindi vado e vengo tranquillamente. Se ci dovessi vivere mi sparerei, perché ci pagano a cottimo e ripetersi così tante volte non è affatto divertente. L’open space è totale, le telecamere ovunque, se non bastasse l’assenza di muri. La cucina è senza finestre, tanto per rendere meno gradevoli le pause.

Sento parlare almeno quattro o cinque lingue al giorno. Ci sono studenti, ma per lo più persone che devono andarci avanti: quella che ha perso il lavoro, quello che non ingrana con l’altro e non lo pagano nell’altro ancora, anche la capa non sembra stare in forma. Ogni tanto riceviamo una mail che ci dice quanto stanno facendo gli altri, come se il conto non lo facessi da sola visto che mi pagano in base a quello. In realtà vogliono stimolare, spronare. Ma nemmeno abbiamo incentivi, allora che ti sproni a fare?

Una volta a quella dietro di me hanno fatto l’applauso. Aveva venduto abbastanza. Chissà se le hanno dato anche due spicci. [era una di quelle del progetto moda, che sono tutte un po’ con la puzza sotto al naso].

C’è qualcuno che si salva, certo. E siccome le persone simili si attraggono, alla fine diventi amica di quello un po’ frikkettone, che suonava in giro, mediamente anarchico, con cui puoi parlare almeno di musica. Un altro paio di persone decenti ci stanno, ma poco più.

Comunque, non ci si lamenta. In fondo il primo Maggio come l’8 Marzo, sono momenti per ricordare che il lavoro non solo rovina la vita, ma a volte la toglie pure.

United colors of Benetton, ma anche of Primark, Cortes Ingles, Mango e chi più ne ha più ne metta.

Per un primo maggio che sia di lotta, che sia di non lavoro.

Con tutta l’invidia di chi domani si perde il Forte, con tutta la vergogna di indossare chissà quanti vestiti analoghi a quelli della strage in Bangladesh.

[clip da film propagandistico del ’53, sulla ricostruzione di Varsavia: giovani operaie e operai, in lotta a chi produca di più, con storia d’amore annessa, emancipazione dal campo alla città della giovine contadina e via dicendo, fa sorridere anche non conoscendo il polacco – foto da Panorama]

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