Femminilizzazione del lavoro

La storia segue cicli e ricicli, ma mai nessun ciclo è uguale all’altro, come non lo sono i maglioni di pile dalle bottiglie con cui sono stati ricavati. A volte, però, ci sono delle somiglianze. Quando il capitalismo si stava dando forma, il lavoro delle donne svolgeva le funzioni di ciò che oggi chiamiamo precariato: manodopera flessibile sotto ogni profilo, salari bassi, che tendevano ad abbassare quelli degli altri. Operazione che si traduceva in una serie di nostre ave multifunzionali, sotto il profilo produttivo, riproduttivo e della cura.

“Erano spesso gli stessi mestieri corporati a servirsi del lavoro libero, e in particolare di quello delle donne, come valvola di sicurezza rispetto a esigenze di elasticità e competitività della produzione; in tal modo il sistema produttivo fondato sul laboratorio e sulla bottega e l’attività domestica, prevalentemente ma non esclusivamente femminile, interagivano fra loro e finivano per essere complementari. (…) Era un modo per economizzare sui costi: ci si serviva di una manodopera non ‘ufficialmente’ qualificata rispetto a quella presente nelle botteghe, e quindi meno costosa; nominalmente indipendente, anche se di fatto subalterna, e quindi più flessibile rispetto alle contrazioni o alle espansioni del mercato di quella inquadrata e protetta dalla struttura corporata. (…) La presenza delle donne, arruolate spesso all’interno di una compagine familiare impiegata nella sua interezza, consentiva un risparmio dei costi non solo grazie ai salari più bassi (la ‘levadora’ guadagnava la metà o anche meno, di un semplice lavorante), ma anche perché l’erogazione unica dei compensi di tutti i membri della famiglia favoriva il contenimento delle stesse retribuzioni maschili”.

Angela Groppi, Lavoro e proprietà delle donne in età moderna, in Eadem (a cura di), Il lavoro delle donne, Roma-Bari, 1996, pp. 122-124.

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