Sull’apparire e sulla monnezza

Che poi non c’entrerebbe niente l’apparire con la monnezza, se non fosse che sta succedendo il finimondo, ma qui ancora si sta a pensare a creare il mostro “zio necrofilo-assassino”, per farci dimenticare che nel napoletano la popolazione civile sta facendo il panico sulla questione rifiuti, (e anche che la violenza sulle donne è un fenomeno diffuso a tutta la popolazione, senza distinzioni di razza, lingua o religione, per quanto poi alcune strutture possano fomentarla – ad esempio l’opposizione al divorzio della chiesa una santa cattolica apostolica e tutte quelle menate lì – ma questo è un altro capitolo). Un giorno lo zio necrofilo, un giorno Berlusconi e le sue boutade, per par condicio, ovviamente, ma insomma, della resistenza della società civile meno si parla meglio è. Chiaramente questo fa parte di un disegno di appiattimento del conflitto eccetera eccetera che non racconterò io, ma che è comunque palese. Avete voluto votare la persona che controlla tutti i media in Italia, ora vi beccate “Ruby” e le sue storie di scarceramento. Noi intanto si fa i conti con una repressione sempre più diffusa e capillare, che passa attraverso tutti i canali e che ora colpisce proprio Terzigno.

Qui trovate tutte le informazioni del caso.

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In realtà dopo questo parziale lavaggio di coscienza, volevo solo fare una piccola, minuscola riflessione sull’apparire.

C’è stato un tempo in cui sono stata una bambina cicciottella e bistrattata, per tal motivo. C’è stato un tempo, in cui non avevo ancora dato il primo bacio e mi pesava molto.

In età avanzata sono uscita fuori dal mio vestito di ciccia infantile, mi sono messa “a posto” (nel senso che dicono gli altri, non che dicevo io), anche se continuavo a mangiare male, ad alternare i digiuni da 1000 kcal al giorno, ad abboffate tremende, in cui potevo anche mangiare il pan grattato se proprio andava male, o avevo finito tutto. Magari aprendo una lattina di tonno.

Mi sono messa a posto, e ho iniziato a ritagliarmi un ruolo sociale, quello in direzione ostinata e contraria, della kefiah, della felpa (che ora mi fa sorridere, ci sia potuta andare in giro) con la a cerchiata addosso (ma in realtà era solo l’iniziale del mio nome! urlavo al custode di scuola quando mi diceva qualcosa in merito, che poi mi voleva bene quel custode, anche se non so perché), con le assemblee, i cortei. Mostrando una radicalità che non sono mai riuscita ad assumere totalmente, perché bene o male, non sono una radicale “seria”, o perché i miei genitori, avendo perso un amico e compagno in anni (forse) più pesanti, mi hanno forgiata come un’individua con il sacro terrore della piazza. Il che poi non è che non mi crei problemi, questa pavidità che è morsi della coscienza.

Forse nemmeno la mostravo la radicalità, la percepivano gli altri, quelli che di assemblee non ne avevano mai fatta una. Perché mi davano della “superattivista”.

Detto fatto, mi costruii questo personaggio, o forse sono solo cresciuta come persona, diventai più carina, diedi il primo bacio. Che mi sembrò di passare la lingua su un posacenere, a pulirlo, ma questo è un altro discorso.

Poco dopo iniziai ad avere rapporti più intensi, ma mai emozionalmente soddisfacenti, il che è un retaggio che mi porto anche ora.

Continuavo, comunque, a voler sparire, appiattirmi, diventare una parete, magra quasi come se fossi trasparente. Qualsiasi tipo di corporeità, anche oggi, mi fa sentire grossa e goffa, instabile, come se fossi un elefante in una cristalleria. Solo che all’elefante non importa molto dei cristalli, ma a me importava. Volevo piacere, ma mi sembrava, anche quando guardandomi negli occhi mi dicevano che ero “bella”, che fossi soltanto una elefantessa miope. Mi sono vestita di sacchi di colori neutri (non il bianco) per anni. Mi sono sfigurata, pur di diventare quella cazzo di parete, cui volevo appartenere.

Anche oggi, a volte, mi pare di stare bene solo quando sto a letto con qualcuno, come se fosse quello a far sentire apprezzate, come se fosse la naturale controprova dell’apparire. Mi piaci, ti scopo. Il problema è che poi le scopate durano poco, ti risvegli con odori che non conosci, che ti piacciono, ma che non incontrerai mai più. O magari una volta, per non ripetersi.

Ma c’è un ma. Oggi, anche se mi sento un’elefantessa a pois, o rosa, riesco ad uscire di casa vestita quasi da pin up, con un tubino a pallini anni ’50, o completamente rosa e anni ’80. Oggi non ho più nessuna intenzione di diventare una parete.

E qualche tempo fa una mia amica mi ha proposto: dai facciamo due scatti, magari anche per una mostra, magari nude. E io ho detto sì. Non l’avrei mai pensato. E la cosa assurda è che stare sotto i faretti, con il cervello cotto al calore della luce, e i pensieri che andavano da un’altra parte, mentre il suo compagno ci fotografava, e magari si eccitava, a me piaceva. Mi piaceva essere vista. Mi piace apparire, e mi sembra quasi una liberazione.

Certo, le calorie me le sono contate pure oggi.

Certo, magari rimpiangerò ancora un amore lontano e non corrisposto. Due anni non bastano a dimenticare un emerito cazzo, quando si ha a che fare con persone belle, storie irrisolte e distanze mal definite e che ancora sto prendendo, metro alla mano.

Certo, ogni tanto mi vesto come mi viene, e vengo guardata, e mi muovo proprio come quell’elefante che schiaccia cristalli. Magari dò una ginocchiata, un’ancata, una testata, o una spallata a qualcosa che non ti saresti aspettata.

Certo, mi guardo allo specchio e penso che devo dimagrire. Ma poi per chi o per che? Però lo faccio e mia dea, sono 4 anni che faccio riflessioni in un collettivo femminista, che non prescindono l’aspetto fisico. E pensare che nemmeno guardo la tivù.

Però dai, sono migliorata, forse cresciuta? Non saprei, forse non mi importa nemmeno troppo. Ho ancora un anno a disposizione di postadolescenza prima di dover fare i conti con il mondo adulto, l’affitto da pagare, il lavoro da cercare. Per ora mi dedico alle morte carte, che a volte sono tenere quasi come se fossero vive.

E vivo io, vivo, avrei preferito di no, ma m’hanno buttata in mezzo, a ‘sto punto si gioca.

[con punte di sensi di colpa per aver disertato cose da fare, ma il movimento a volte può aspettare]

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