Racconti sparsi da un’emigrata

L’emigrazione non è mai una scelta semplice. Anche quando è temporanea (ma quale emigrazione è permanente?), privilegiata, scelta e voluta.

Ho scelto il momento giusto per dire Auf Wiedersehen al mio paese Natale, ai miei amici, al mio (ai miei) collettivi, alla famiglia. Quando tutto iniziava a precipitare io mi sono catapultata in un altro paese, in un’altra lingua, un altro ambiente. Quando scoppiava il centro di Roma e scoppiavano conflitti latenti da almeno venti anni. A volte da quaranta. Ho scelto di interessarmene pochissimo, io che amo occuparmi di ecumenismo e pacificazione sociale, perché tanto non è possibile sedare i rancori da vicino e manco da lontano, anche se ci si prova sempre e continuo a supportare chi continua a farlo. Sisterhood, contro ogni fottutissimo machismo da micropotere patriarcale, quotidiano, familiare. Quello che si costruisce con l’età, l’esperienza, il tono della voce. Ma niente, dicevamo, questo è passato.

Poi ti fai qualche giorno senza internet e appena riaccendi il computer ti ritrovi di fronte a terremoti e arresti, quasi che la fine del mondo stia lì per arrivare, mentre ingoi il boccone amaro di non poter passare all’ospedale a trovare tua madre dopo un’operazione, mentre bestemmi tra i denti sapendo che se anche lo facessi ad alta voce nessuno capirebbe. E c’è quell’ovosodo che si è piazzato nello stomaco, non va né su giù, sta là, pesa, uccide ogni sentimento, uccide te stessa e ogni fottutissimo party di compleanno. Non l’avevi messo in conto eh? Anche se la ventata di repressione che soffia sull’Italia te l’aspettavi, non ti aspettavi mica che ti colpisse proprio quando crollava tutto il livello familiare, e quest’ovosodo da brutto presentimento ce lo hai da quando sei partita l’ultima volta. Non sono poi così forte come credevo, e poi io odio comunicare via cellulare. E sto qui ad aspettare una telefonata, per sapere come va e riparlarci.

Un polpo sbattuto sullo scoglio da un pescatore brusco, ecco come mi sento. Con la fottutissima paura di non ritornare in tempo per tutto. Con le lacrime a bagnare il letto della prima donna con cui ho dormito quasi come se fosse la “mia” donna, mentre lei e le altre ridono, scherzano, ascoltano musica e poi dormire. Dormire è l’unica salvezza, dopo un mese di insonnia e ansia. E io ora vorrei dormire tutto il giorno, non andare a parlare in inglese a un pubblico polacco di postpornografia e tantomeno a farla.

Due baci e due carezze non bastano a curare la tristezza.

L’immagine è da Orgosolo, un paese in cui lasciarono traccia di un compagno ammazzato anche i miei. Tanto per rimanere in famiglia. E per ricordare.

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